Con due sentenze, Corte di Cassazione inizia a sgretolare il muro dell’art. 19 del D.lgs 546 del 1992. Una norma folle che, finalmente, vacilla di fronte alla realtà concreta.
di Giuseppe Pedersoli
Chiunque si occupi, a vario titolo, di contenzioso tributario, ha mille dubbi, ma un’unica certezza: se il Fisco ti notifica un atto e tu non lo impugni, quell’atto diventa definitivo. Contestazioni, proteste, lamentele, rilievi, devono essere espressi entro sessanta giorni, con le modalità note agli esperti. Un collega illuminato sostiene da sempre: “Se ricevi un atto dove c’è scritto che sei il Papa e tu non proponi ricorso, non c’è giudice tributario che possa modificare una realtà divenuta immutabile per l’eternità. Sei il Pontefice, Sua Santità e lo sarai fino alla fine dei tuoi giorni”. E’ evidente che il dotto collega si esprima con un paradosso, ma quante volte è accaduto, durante l’udienza in commissione tributaria provinciale o regionale, di assistere alla scena nella quale il presidente o il relatore, allargando le braccia, quasi mortificati, chiariscono al collegio difensivo: “Purtroppo c’è il muro insormontabile di un atto precedente che si è consolidato. Non possiamo scendere nel merito. Ci dispiace”. Non importa che la richiesta sia manifestamente iniqua, che il ricorrente abbia sostanzialmente e palesemente ragione. In dottrina si parla di “cristallizzazione della pretesa tributaria”. Ma il muro insormontabile inizia a sgretolarsi. Se pure quello di Berlino è stato abbattuto, anche cristallizzazione, definitività e consolidamento possono andare in frantumi. La Corte di Cassazione, con due recenti sentenze, ha scardinato uno degli assiomi del Decreto legislativo 546 del 1992: l’art. 19 comma 3. E’ vero che l’istituto dell’autotutela, in qualche modo, consente di scavalcare quel muro, se non è possibile abbatterlo. Ma l’autotutela ha un profilo odioso per tutti coloro che tentano di difendere i contribuenti: la discrezionalità del funzionario, del dirigente, del responsabile del procedimento che devono valutare per poi decidere se annullare o meno la pretesa e l’atto con il quale essa (la pretesa) si manifesta. Avvocati e dottori commercialisti dediti al contenzioso hanno, tutti, almeno un aneddoto da raccontare con il quale si dimostra che l’annullamento in autotutela di un atto, ritenuto scontato, viene negato dal solerte rappresentante della pubblica amministrazione. Le frasi più frequenti? Non posso assumermi la responsabilità, annullo solo se me lo ordina una sentenza passata in giudicato, i termini della questione non sono quelli da lei esposti. Ma, si ripete, in fondo al tunnel si intravede una luce, ancorché fioca. Ripercorriamo quindi l’iter giuridico per lasciare una speranza … “a chi ha ragione ma non si è difeso al momento opportuno”. L’art. 19, comma 3 del D.lgs. n. 546 del 1992 recita: “Gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente. Ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri. La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”. Che ne fai delle Tavole della Legge ricevute da Mosè sul Monte Sinai?
L’autotutela: quando, come e limiti della stessa
L’Amministrazione finanziaria ha il potere-dovere di annullare un atto, di ritirare la propria pretesa fiscale, anche d’ufficio, pure senza una specifica richiesta del contribuente. Questo accade se gli atti sono riconosciuti illegittimi o infondati. Ma è proprio questo il punto. Le affermazioni appena enunciate, tacitamente, riconducono l’eventuale decisione di annullare, di “ritirare la pretesa”, alla valutazione di chi ne ha (avrebbe) il potere. Come detto, l’aneddottica sul tema è fiorente, ci si potrebbe scrivere un libro. Quello che è chiaramente illegittimo e infondato per il contribuente, potrebbe non esserlo per chi è tenuto ad esaminare e valutare l’istanza. Ed infatti la situazione, giuridicamente (ma anche di fatto), si complica se a seguito dell’istanza in autotutela ci si vede recapitare un provvedimento di diniego (o se matura il cosiddetto “silenzio – rifiuto”). Come comportarsi, in tal caso? L’impugnazione del diniego, tacito o espresso, non è condivisa a pieno, in dottrina. E nemmeno in giurisprudenza. Soprattutto se, come sovente accade, c’è un avviso di accertamento che è diventato definitivo. La sentenza n. 2870 del 2009 della Corte di Cassazione aveva così deciso: “(…) non è sicuramente esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità propria, in questo caso, dell’attività di autotutela, sia perché, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo”. In realtà le oscillazioni della Suprema Corte sul diniego di annullamento in autotutela sono notevoli. Già nel 2012, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 10020, introdusse un principio innovativo: l’interesse di rilevanza generale. Il contribuente, se chiede all’Amministrazione finanziaria di ritirare – con l’istanza in autotutela – un avviso di accertamento divenuto definitivo, deve prospettare l’esistenza di un interesse pubblico prevalente. Nel 2018, sempre la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 21146, confermò che nel processo tributario l’impugnazione dell’atto di diniego di autotutela è ammissibile unicamente in caso di profili di illegittimità del rifiuto e se sussistono ragioni di rilevante interesse generale. Una primissima versione dell’attuale autotutela, nel diritto tributario, è da ricercarsi nell’art. 3, comma 6, del decreto legge n. 261 del 1990. La portata generale dell’istituto è poi avvenuta con l’art. 68, comma 1, del Dpr n. 287 del 1992. Finalmente, con il decreto legge n. 564 del 1994, all’art. 2 quater, è stata disciplinata, in modo espresso, l’autotutela. Successivamente, con il decreto ministeriale n. 37 del 1997, si sono precisati gli organi competenti ad esercitare l’autotutela, le ipotesi di annullamento e gli adempimenti degli uffici. L’unico limite – è doveroso sottolinearlo – è costituito da un’eventuale sentenza passata in giudicato. Ma quando, correttamente, può esercitarsi l’autotutela in soccorso dell’atto illegittimo e dell’interesse pubblico? Sotto il profilo oggettivo è possibile individuare l’esistenza di un duplice presupposto per l’esercizio dell’autotutela. Il primo è costituito dall’illegittimità dell’atto, che l’art. 2, comma 1, del Decreto ministeriale n. 37 dell’11/02/1997 ha riconosciuto nei seguenti casi:
Ma questo elenco ha carattere meramente esemplificativo. Il secondo presupposto è costituito da uno specifico, concreto ed attuale interesse pubblico all’eliminazione dell’atto, diverso dal generico interesse al ripristino della legalità. Inoltre, c’è da aggiungere che, per quanto la presentazione dell’istanza di autotutela non sospenda i termini per ricorrere, è opportuno che l’Agenzia (o altro Ente) comunichi l’esito dell’istruttoria al contribuente prima dello spirare del termine per l’impugnativa, al fine di evitare l’insorgere di un contenzioso (si veda, sul punto, la circolare ministeriale n. 258 del 1998).
L’Imu da pagare per il Colosseo e la Tari per il Maschio Angioino
Come deve comportarsi, allora, il cittadino che, magari per un disguido informatico (o a per volontà di un impiegato comunale mattacchione), si vede notificare un avviso di accertamento per l’Imu da versare per il Colosseo o per la Tari del Maschio Angioino? In un Paese normale, le possibilità sarebbero due: strappare in mille pezzi, senza timori, l’atto ricevuto in notifica o, per zelo, inviare un’istanza in autotutela, rispettivamente al Comune di Roma e a quello di Napoli, per chiedere l’annullamento della pretesa. Ipotizziamo di vivere in un Paese civile e che il cittadino sia zelante: l’istanza di annullamento in autotutela viene presentata, ma non si riceve risposta. L’avviso di accertamento diventa definitivo. Dopo un po’, viene notificata la cartella di pagamento. Lo sfortunato contribuente, ancora una volta, si fida della Pubblica Amministrazione e presenta una seconda istanza in autotutela, a Roma e a Napoli. L’emergenza sanitaria si è conclusa (speriamo almeno questo) e gli rispondono, dal Campidoglio e da Palazzo San Giacomo, allo stesso modo: “Purtroppo ci sono ben due atti divenuti definitivi: l’avviso di accertamento e la cartella. Lei deve pagare”. Un po’ come per la storia del Papa in premessa, il malcapitato sarà considerato per sempre debitore di Imu e Tari. Il Moloch dell’art. 19 comma 3 del decreto legislativo 546 del 1992 non lascia spazio alla difesa: devi parlare, devi protestare a tempo debito. Se non lo fai, se non impugni l’atto che contiene una pretesa illegittima, infondata, assurda, pazzesca, ti esponi al rischio della discrezionalità di chi, poi, da impiegato o funzionario o dirigente dovrebbe assumersi la responsabilità di annullare un provvedimento che si è cristallizzato, che è diventato definitivo. Ricordo a me stesso che sto scrivendo per una rivista destinata, per lo più, a colleghi e quindi voglio precisare che, pur partendo da esempi paradossali, lo spunto per questa riflessione me lo ha fornito un caso concreto che provo a sintetizzare. Un’anziana signora si vede notificare un avviso di accertamento per Tari (all’epoca Tarsu) relativa a un locale di milleduecento metri quadrati, un garage, che non è di sua proprietà. A ciò si aggiunga che l’immobile, di proprietà condominiale, fu locato nel 1996 ed è tutt’oggi condotto in locazione da un tale che, per l’appunto, vi gestisce un garage. E’ evidente, quindi, che la “tassa sulla spazzatura” non deve versarla la signora (la quale, si ripete, nemmeno è proprietaria del locale) ma l’imprenditore – locatario. Tuttavia, la signora commise un errore, quello di fidarsi della Pubblica Amministrazione. Inviò, anni addietro, un’istanza di annullamento dell’avviso di accertamento, senza proporre ricorso, esponendo i motivi che sopra ho sintetizzato. Il Comune non le rispose. Inesorabilmente, le fu in seguito notificata una cartella di pagamento. Ancora una volta, la contribuente ne chiese l’annullamento in autotutela, quasi implorando l’interlocutore che vorrei definire virtuale ma non posso, perché le rispose più o meno così: “Purtroppo lei non ha impugnato l’avviso di accertamento sottostante, che quindi si è reso definitivo. Non possiamo, di conseguenza, annullare la pretesa. Lei deve pagare”. E’ il Moloch dell’art. 19. Proverò a ripercorrere la strada dell’autotutela, preparandomi ad impugnare il presumibile diniego, tacito o espresso (a meno che nel frattempo non si verifichi il “miracolo” dell’annullamento in autotutela). Nel mio tentativo disperato, di cui un cittadino svedese o tedesco, probabilmente, riderebbero, mi sono fatto forte della lettura di due sentenze di cui passo a scrivere.
Il muro dell’art. 19 D.lgs. 546/92 inizia a sgretolarsi: le sentenze n. 24033 del 2019 e la n. 8719/2020 della Suprema Corte
Come nel più classico dei film a lieto fine (ma dopo decenni, non dopo due ore di proiezione cinematografica) l’inabbattibile muro dell’art. 19 D.lgs. 546/92 finalmente, mostra segni di cedimento. La quinta sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24033 del 26 settembre 2019, ritiene ammissibile l’impugnazione del diniego di autotutela per ragioni di interesse generale. Naturalmente la Corte esclude che possa essere accolta l’impugnazione dell’atto di diniego proposta dal contribuente, il quale contesti i vizi dell’atto impositivo che avrebbe dovuto far valere in sede di impugnazione dell’atto, prima che divenisse definitivo. Pochi mesi dopo, esattamente l’11 maggio del 2020, sempre la quinta sezione della Suprema Corte, deposita la sentenza 8719 e rivaluta l’istituto dell’autotutela. La decisione della Suprema Corte interviene nella prescrizione dei crediti fiscali e statuisce: “ (…) essendo strutturato il processo tributario come processo impugnatorio, l’impugnazione del diniego di sgravio di ruolo portanti crediti prescritti è il modo tipico per innestare, in tale tipo di processo, la domanda di accertamento dell’avvenuto compimento della prescrizione dei crediti il cui recupero sia stato affidato all’agente della riscossione. Quanto al termine di prescrizione dei crediti per Tarsu, questa Corte lo ha fissato in cinque anni, applicando l’art. 2948, comma 1, n. 4 c.c.”. Non è importante evidenziare il merito della vicenda a cui fanno riferimento le due sentenze. E’ invece fondamentale evidenziare che gli Ermellini richiamino la giurisprudenza che, ormai da tempo, interpreta estensivamente l’art. 19 del D.lgs. 546 del 1992 e vuole ricomprendere tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario anche il diniego di sgravio. Quest’ultimo è da considerarsi quale atto comunque incidente sui rapporti tributari tra Fisco e contribuente e sul punto vi sono altre decisioni (Cassazione, n. 285/2010 e n. 16100/2011). Le sentenze 24033/2019 e 8719/2020, finalmente, attribuiscono degna importanza all’istituto dell’autotutela. Certo, nel disperato tentativo di fornire un aiuto concreto al lettore, probabilmente difensore tributario, si deve evidenziare che alla base di un eventuale ricorso c’è da dimostrare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale per l’Amministrazione alla rimozione dell’atto. Non è consentito contestare la fondatezza della pretesa tributaria. Ma la Suprema Corte tace sul significato di “interesse di rilevanza generale per l’Amministrazione”. Per non “scontrarsi” con altri consolidati (quelli) principi di dottrina e giurisprudenza, bisognerà evitare di sostituirsi all’Amministrazione nella sua attività impositiva. Nei due (forse tre) casi paradossali precedentemente prospettati, la follia della richiesta appare evidente. Ma, come detto, la questione giuridica di fondo è la necessità di un interesse generale, pubblico. Un interesse che sia di palese evidenza. Il richiamo ai principi fondamentali della Carta Costituzionale è “troppo comodo”. L’art. 53 della Costituzione, ma anche gli articoli 2, 3 e 36 sono evidentemente generici rispetto all’enormità della questione prospettata: l’abbattimento del muro dell’art. 19 del D.lgs. 546 del 1992! Il ricorrente dovrà, quindi, evidenziare soltanto ed unicamente profili di illegittimità che inficiano il diniego, confidando nella “creatività” dell’estensore del ricorso per individuare tale “interesse di rilevanza generale”. E questa creatività dovrà, poi, coniugarsi con la volontà del collegio giudicante di allargare le maglie dell’art. 19. Un’impresa ardua, ma non più impossibile grazie alle due sopra citate sentenze della Corte di Cassazione.
Conclusioni
Il Fisco italiano sostiene che sei il Papa? Che devi pagare Imu o Tari per il Colosseo e per il Maschio Angioino? Purtroppo non ti sei opposto ad un eventuale atto iniziale, ma si intravede uno spiraglio per affermare le tue ragioni. La Corte di Cassazione, con le sentenze 24033/2019 e 8719/2020, ha rivoluzionato (secondo me normalizzato e nessuno me ne voglia) il contenzioso tributario italiano. Se non sei il Papa, se non sei il proprietario del Colosseo o del Maschio Angioino, puoi sempre gridarlo al mondo intero, a prescindere dalle assurde regole giuridiche, a prescindere dalla rigidità delle norme. Certo, la decisione finale spetterà al magistrato tributario, ma come è facile affermare… ci sarà un giudice a Berlino! Non ho la presunzione di elencare casi di prevalenza dell’interesse pubblico o generale. Ma l’importante è sapere che non esistono casi di “assoluta inammissibilità del ricorso presentato” perché l’atto (o gli atti) precedenti non sono stati impugnati. Se non sei il Papa, se non sei il proprietario o “utilizzatore” del Colosseo o del Maschio Angioino, non lo sei e basta. Non ci può essere una (folle) norma tributaria che affermi il contrario.